Da quando Internet esiste, i governi di tutto il mondo hanno cercato di saggiarne umori, indirizzarne tendenze e, soprattutto, controllarne gli utenti. L’India, sebbene sia la “democrazia” più popolosa al mondo, non fa differenza: non nuova a episodi di limitazione della libertà di espressione, il suo sistema giudiziario sembra ora volersi dedicare alla censura del web. Contenuti osceni – aggettivo da prendere molto alla larga – su siti come Google e Facebook sarebbero da rimuovere, da controllare preventivamente, addirittura. Proseguite con la lettura per approfondire l’argomento.
Ovviamente, i giganti del web non sono d’accordo a sopportare le ingerenze dei governanti indiani e a gennaio di quest’anno l’avvocato di Google India ha chiaramente detto all’alta corte di Delhi che bloccare i siti web “non è da prendere in considerazione”, visto lo status non-totalitario del paese (insomma, dice Google, mica siamo in Cina).
La legislazione odierna, seguendo la tradizionale attenzione che la Repubblica dell’India dedica alle questioni religiose, consente l’eliminazione di contenuti che istighino all’odio tra diversi gruppi, o che “minaccino l’integrità nazionale”. A testimonianza di ciò, possiamo considerare le dichiarazioni del giornalista Vinay Rai, autore di un’importante denuncia verso alcune piattaforme di sharing: “Libertà di parola non significa che puoi mostrare quel che vuoi. Insultare la religione significa istigare rivolte”.
Il punto di vista di Rai e della sua denuncia è alquanto detestabile: le compagnie web dovrebbero esaminare il materiale prima della pubblicazione; in particolare sono state citate, nella causa intentata, 19 società oltre a Google e Facebook. L’accusa è quella di mostrare lavori che “depravano o corrompono”, in piena violazione delle leggi indiane.
Ora, la proposta sembra davvero ridicola, poiché sarebbe impossibile – vista la velocità alla quale si muovono i contenuti – controllare davvero tutti i video, le immagini, le vignette o anche solo i testi che secondo qualche “difensore della coesione nazionale” indiana sarebbero da censurare.
Tuttavia, la rimozione di contenuti ex post – in caso di motivi ragionevoli – può essere in certa misura tollerabile, così come lo è per le più avanzate democrazie d’occidente. Ed è proprio quello che una corte di Nuova Delhi ha deciso il mese scorso in seguito alla causa che vedeva Google e Facebook coinvolte, ordinando di eliminare, o comunque rendere inaccessibili agli utenti indiani, contenuti ritenuti offensivi per Indù, Musulmani e Cristriani.
Qualche giorno fa, il 13 marzo, ha invece avuto inizio un processo che vede sempre Google e Facebook, tra gli altri, coinvolti. In sostanza, in ottemperanza ad una norma del 2011 che stabilisce la responsabilità dei portali anche sui contenuti user-generated, si contesta alle aziende di non aver rimosso – come la legge prevede – i contenuti segnalati entro 36 ore.
Le società rispondono alle accuse affermando che tali regolamenti sarebbero in conflitto con l’Information Technology Act (ITA) del 2008, famoso provvedimento emanato dopo gli attentati terroristici di Mumbai che costarono la vita a 195 persone. Secondo la difesa, infatti, tale ITA solleverebbe le piattaforme di condivisione da responsabilità nei riguardi di ciò che gli utenti caricano.
Inoltre, i provider si difendono sottolineando come i contenuti in questione non fossero affatto stati segnalati come offensivi, rendendo impossibile un’azione da parte loro. L’ultimo punto riguarda Vinay Rai: egli non avrebbe notificato il materiale della discordia ai relativi siti web, ma sarebbe andato direttamente a lamentarsi con il governo, intentando una causa.
Gli attivisti per le libertà civili, intanto, hanno descritto il caso come una crepa nella libertà di parola, mentre altri hanno appoggiato la richiesta di controllo preventivo. Da parte loro Google e Facebook hanno chiesto alla corte di archiviare il caso che, in caso volgesse a loro sfavore, potrebbe costare multe salate e – addirittura – un periodo di reclusione per i manager.
Voi che ne pensate, è sopportabile una censura preventiva – con il rischio che diventi discrezionale – dei contenuti web in nome di un bene più grande come la coesione della nazione o, di contro, la libertà di parola deve essere garantita fino a prova contraria, ovvero la sentenza di un giudice?
Via | TheVerge
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