Durante un briefing con la stampa, la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ha dichiarato che il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, “crede assolutamente” che Apple possa produrre i propri iPhone e altri dispositivi direttamente in America.
Alla domanda se la produzione di iPhone possa essere trasferita negli Stati Uniti, Leavitt ha risposto con fermezza: “Assolutamente, lui crede che abbiamo la manodopera, la forza lavoro e le risorse per farlo”. Ha anche citato il maxi investimento da 500 miliardi di dollari annunciato da Apple negli USA, sostenendo che se l’azienda non credesse nelle capacità industriali del Paese, non avrebbe mai destinato una cifra del genere.
Le dichiarazioni arrivano alla vigilia dell’imposizione di nuovi dazi doganali da parte di Trump su diverse nazioni, tra cui Cina, Vietnam, Thailandia, India e l’Unione Europea. A partire da oggi 9 aprile, le merci provenienti dalla Cina saranno tassate con un’imposta del 104%, più che raddoppiata rispetto al già elevato 54%. Il messaggio è chiaro: se aziende come Apple vogliono evitare costi insostenibili, devono riportare la produzione in patria.
Tuttavia, il piano si scontra con una realtà industriale estremamente complessa. La catena di fornitura Apple è stata perfezionata nel corso di decenni ed è altamente specializzata. Oggi, il trasferimento totale o parziale della produzione negli Stati Uniti appare impraticabile, sia in termini di costi che di competenze.
Anni fa, Tim Cook stesso aveva chiarito il motivo per cui Apple continua a produrre in Cina:
“L’opinione comune è che le aziende si trasferiscano in Cina per il basso costo del lavoro. Tuttavia, la verità è che la Cina non è più da anni un Paese a basso costo del lavoro. Il motivo è un altro: le competenze”.
Cook aveva spiegato che gli Stati Uniti non dispongono di un numero sufficiente di ingegneri specializzati nella lavorazione degli utensili, mentre in Cina si può attingere a una forza lavoro vastissima:
“Negli Stati Uniti potremmo forse riempire una stanza con ingegneri specializzati nella lavorazione degli utensili. In Cina si potrebbero riempire stadi di football”.
Come sottolineato da 404 Media nel suo articolo “A ‘US-Made iPhone’ Is Pure Fantasy”, Apple si affida a una rete di fornitori distribuiti in oltre 50 Paesi. La lista ufficiale è lunga 27 pagine e include anche il reperimento di materiali rari provenienti da 79 Stati, molti dei quali non possono essere sostituiti con risorse statunitensi. Anche limitando la produzione al solo assemblaggio finale, gli USA non avrebbero la forza lavoro né le competenze per sostenere un’operazione del genere.
Il segretario al Commercio Howard Lutnick ha sollevato critiche quando ha affermato che “l’esercito di milioni e milioni di persone che avvitano viti minuscole per assemblare gli iPhone arriverà in America”. Secondo 404 Media, questa dichiarazione dimostra la totale inconsapevolezza dell’amministrazione riguardo alla struttura operativa di Apple.
Apple non ha ancora commentato ufficialmente l’aumento dei dazi, ma secondo alcune fonti starebbe accumulando scorte e cercando di spostare parte della produzione in India, dove le tariffe sono più contenute.
Per quanto riguarda il famoso investimento da 500 miliardi di dollari negli USA, si tratta di un’iniziativa destinata a supportare l’infrastruttura del Private Cloud Compute di Apple e non ha nulla a che vedere con la produzione di iPhone. I server in questione sono a basso volume, destinati a scopi specifici e ben lontani dalla complessità industriale necessaria per gli smartphone.
Durante il primo mandato di Trump, Apple tentò di produrre il Mac Pro in Texas, ma l’esperimento fu tutt’altro che semplice perché la mancanza di fornitori locali, carenze di manodopera qualificata e imprevisti legati all’importazione dei componenti causarono ritardi e problemi operativi.
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